di:Anna Toro , OSSERVATORIOIRAQ MEDIORIENTE E NORDAFRICA , Dec.13, 2013

“Tante sono le storie viste e sentite durante i miei viaggi. Una voce mi è rimasta nella mente e nel cuore: in un incontro a Farah, il capo villaggio nel congedarci ci ha raccomandato: ‘parlate, parlate dell’Afghanistan, perché solo così questo paese continuerà a vivere’”.

Sono le parole della fotografa Carla Dazzi a introduzione della sua mostra conclusa recentemente presso la biblioteca Rispoli di Roma. Volontaria dell’Ong Insieme si può… , da oltre 10 anni si spende a favore della difesa dei diritti delle donne, e di quelle afghane in particolare, “ancora oggi impossibilitate a condurre una vita davvero libera e nel pieno della loro dignità”.

Sono soprattutto loro che ritrae nei suoi scatti pieni di calore umano ed empatia.

“L’Afghanistan non è solo guerra, e gli afghani non sono solo guerrieri o fondamentalisti” spiega la fotografa. “Esiste anche un altro Afghanistan di cui si parla poco, un paese di donne e uomini che, pur vivendo dentro i conflitti, cercano soluzioni alternative a quelle basate sui rapporti di forza e l’uso della violenza”.

In tutti questi anni i viaggi di Carla Dazzi in quell’area geografica sono stati numerosi: “Purtroppo – racconta – quella speranza che vedevo nel 2002 durante le prime mie visite nei campi profughi afghani, oggi non la vedo più”.

Una constatazione amara, con parole dure che rimarcano l’esortazione iniziale: “Se non si può eliminare l’ingiustizia – afferma la fotografa – almeno che se ne parli”.

Ecco perché l’inaugurazione della sua mostra ha fatto da sfondo all’incontro con i cittadini romani della giovane attivista e politica afghana Malalai Joya, insieme alla presentazione del libro di Enrico Campofreda e Patrizia Fiocchetti, “Afghanistan fuori dall’Afghanistan”.

Un triplice evento ancora più significativo se si pensa all’incontro quasi contemporaneo alla Camera dei Deputati sui “successi” ottenuti dalle donne afghane dal 2001 ad oggi, e proprio a pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Il dito puntato di Malalai

“Ma di quali successi stiamo parlando? – si chiede l’autrice Patrizia Fiocchetti, che fa parte del Cisda, il Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane – La situazione è peggiorata per quanto riguarda tutti gli obiettivi annunciati nel 2001. In 12 anni abbiamo buttato miliardi di dollari per la ricostruzione, di cui buona parte sono finiti nelle mani dei signori della guerra che oggi siedono negli scranni del potere. Tutti si dicono preoccupati per l’anno prossimo, quando le truppe straniere lasceranno l’Afghanistan. Ma io dico: cos’altro può accadere di peggio in questo paese?”

A snocciolare i dati, in una sorta di girone infernale, ci pensa Malalai stessa. Sciarpa colorata, viso un po’ stanco ma dal sorriso sempre pronto, la ragazza è nel bel mezzo di un lungo e faticoso “tour” nelle principali città italiane per spiegare alla gente la situazione del suo paese dal suo personale punto di vista di politica e attivista di spicco.A snocciolare i dati, in una sorta di girone infernale, ci pensa Malalai stessa. Sciarpa colorata, viso un po’ stanco ma dal sorriso sempre pronto, la ragazza è nel bel mezzo di un lungo e faticoso “tour” nelle principali città italiane per spiegare alla gente la situazione del suo paese dal suo personale punto di vista di politica e attivista di spicco.

“La guerra della Nato ha aumentato la nostra miseria – spiega senza mezzi termini – Secondo l’Indice sullo sviluppo umano siamo tra i 10 paesi più sottosviluppati, con oltre 20 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà e il 60% dei bambini che soffrono di malnutrizione”.

Per Malalai, divenuta celebre per aver puntato il dito pubblicamente contro i signori della guerra presenti durante una seduta del Parlamento afghano (e infatti è stata sospesa nel 2007), tra le piaghe peggiori che colpiscono il paese c’è il narcotraffico, che produrrebbe effetti ancora peggiori rispetto ad al Qaeda: “L’Afghanistan è la capitale dell’oppio e ci sono due milioni di tossicodipendenti, tra cui molte donne e perfino bambini. Senza contare che siamo all’ultimo posto nell’indice di Transparency International, tra i paesi più corrotti al mondo”.

E poi c’è la condizione delle donne, di cui si occupa in prima persona: “L’80% di loro ha subito una qualche forma di violenza e la nuova legge non ha sortito nessun risultato, così come la presenza internazionale. Nei grandi centri hanno sì creato scuole, corsi di formazione, ma solo per giustificare l’occupazione. Nei centri rurali manca tutto. La sicurezza invece non c’è da nessuna parte e le donne, le attiviste, gli operatori delle Ong occidentali e non, tutti corriamo dei grossi pericoli”.

La presenza delle “quote rosa” nel Parlamento afghano, poi, non deve trarre in inganno. Secondo Malalai, infatti, si tratta di cariche simboliche: “Ci sono perfino mogli dei signori della guerra o parenti di narcotrafficanti, che non si occupano certo dei reali problemi del paese”.

Ripartire dagli afghani“La pace è l’ultima cosa che si respira a Kabul – spiega il giornalista Enrico Campofreda, anche lui presente all’incontro – il fondamentalismo è ancora presente e gli stranieri ne approfittano per mantenere la loro occupazione ‘buona’”.

E continua: “Una grossa parte dei fondi della comunità internazionale sono usati per allargare le basi militari (ecco gli impegni “civili” post-2014), a Bagram si costruiscono carceri, mentre a Farah, dove opera Malalai, l’Italia ha costruito un ospedale. Questo sarebbe lodevole se non fosse che si tratta di una zona in cui la presenza talebana è ancora forte, con conseguenti raid aerei della Nato. Ne consegue che la maggior parte degli abitanti si sono spostati a Kabul, andando ad aumentare la massa di profughi accampati nelle periferie. Perciò l’ospedale non viene usato”.

Insomma, l’opinione condivisa è che la presenza della Nato non soltanto sia stata inutile ma perfino dannosa. Perché c’è anche un Afghanistan che cerca di risollevarsi con le sue proprie forze, ed è quello che Fiocchetti e Campofreda vogliono descrivere nel libro, così come la fotografa Carla Dazzi mostra nei suoi lavori.

“E’ l’Afghanistan delle persone comuni, soprattutto delle donne che rischiano la vita per insegnare o imparare un mestiere che le renda autonome – spiegano gli autori – quello delle associazioni, dei giovani, ma anche quello degli attivisti politici. Perché quella delle donne è una questione politica, non meramente socio-culturale”.

Tutti, in ogni caso, sono “vittime di questa guerra infinita” in cui, nonostante tutto, i sogni e le speranze sono ancora presenti. Ed è da loro che, secondo i quattro protagonisti dell’incontro alla Rispoli, il paese dovrebbe rinascere: “Non certo dall’ennesima guerra”.